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Testimone, 2016. Photo Performance. Foto | Photo: Kolbrún Inga Söring

Ho conosciuto Adriana Affortunati Martins in Sardegna, nel corso di una residenza del programma PAS_Progetto Atelier Sardegna, che l’ha vista ospite per un periodo di due mesi nell’interno dell’isola, presso il piccolo paese di Nughedu Santa Vittoria.

Durante lo studio visit, sono rimasta colpita da uno dei primi lavori che Adriana mi ha mostrato: la serie fotografica “Testimone”, in cui è ritratta avvolta e travolta da un cumulo di lana di pecora che le era stato consegnato da un pastore locale, sin dai primi giorni del suo soggiorno sardo.

Mi ha raccontato che, quando l’ha ricevuto, ha iniziato a vestirsi con grandi pezzi di lana e a esplorare il materiale in un modo talmente naturale e istintivo da non temerne il contatto col suo corpo nudo. Un incontro-scontro che, a osservarlo bene, ci parla della curiosità e intima vicinanza che ha caratterizzato l’esperienza dell’artista in Sardegna.

Il temperamento latino ed estroverso della italo brasiliana Martins l’ha sicuramente aiutata nell’avvicinare una comunità curiosa, ma poco avvezza a raccontarsi e farsi raccontare. Lei ha ascoltato e stimolato la narrazione, si è fatta guidare dal suo affetto per gli oggetti, dall’amore per i segni del tempo e la fisicità, dalla cura materna per ciò che le viene dato e dal desiderio di conoscere quanto di nuovo hanno da dirle gli oggetti e le persone che incontra.



Mi sembra di poter affermare che sono questi alcuni degli elementi ricorrenti nella sua pratica artistica, interessata a dare nuove forme a ciò che in passato viveva di una precisa funzione, e a scavare alla ricerca del bello in ciò che bello non è più, secondo chi lo vede (o non lo vede) ogni giorno.

Artista prolifica, generosa, femminile, non si risparmia nella sua produzione, qualora trovi un filone di ricerca che la stimoli e la animi. E in Sardegna l’ha trovato nell’abbandono di un paese che, in quanto a dinamiche di spopolamento, non smentisce, ma conferma ampiamente i dati preoccupanti dell’entroterra sardo.

Uno spopolamento visibile a occhio nudo, e Adriana l’ha tastato con mano, introducendosi nelle decine di case abbandonate che ha esplorato e mappato. E’ entrata dentro le ferite di Nughedu e attraverso percorsi pericolanti è andata a vedere cosa si poteva trovare nei fragili equilibri di muri scrostati e soffitti crollati.

In questo viaggio, lei trova degli oggetti, li raccoglie, li colleziona per serie e li associa assieme a decine di altri, secondo imprevedibili criteri. Lascia le tracce del suo passaggio, creando quello che si può definire un progetto articolato e complesso che si è andato disegnando con l’intuito, l’empatia e la casualità.



Così i resti reperiti sul posto, ordinati su una tavola con rigore quasi matematico, ci appaiono come collezioni di preziose testimonianze del passato, da osservare e interrogare; due frammenti di mattone rosso agli estremi di uno stesso spago, accostati ad una semplice parola (“matrimonio”), acquisiscono un significato inatteso. Gli oggetti sembrano, per Adriana, avere una vita, sentire. Come il bordo di un muro sgretolato sopra il quale l’artista poggia un sottile strato di lana (“aveva freddo”).

E ancora, crea degli ambienti quasi teatrali, decisamente scenografici che danno una nuova vita allo spazio in senso non funzionale, ma simbolico.

Una cascata di piatti in una stanza dalle pareti azzurre (di cui la Martins ha sgretolato per giorni l’intonaco bianco per recuperare il colore originario) sembra cercare la luce proveniente dalla finestra e mostrarsi ai passanti nella sua situazione di crollo e decadenza.

In un vano di una casa abbandonata, gli arnesi reperiti frugando tra i detriti cessano di essere tali e diventano collezioni di forme arrugginite dal tempo. Disegnano una parete di cose utili quando non erano belle, e belle ora che forse sono inutili.

La Martins non ha voluto fare una denuncia di una problematica già profondamente sentita a Nughedu come in tutta la Sardegna, ma ha voluto entrarci dentro e compiere il suo personale passo in avanti per ricostruire nuove storie su quelle macerie.

Ha provato a chiedere al fruitore, e in particolar modo all’abitante, di osservare quegli oggetti e quei luoghi, come lei stessa ha saputo fare, anche in assenza di una loro attuale funzione: guardarli e pensarli per come sono, provare a smuoverli, spostarli, rimescolare le carte, in un gioco di libere associazioni improntato alla creazione di un nuovo futuro.

Ora quegli oggetti, che sono passati dal dimenticatoio, sono entrati in modo inedito nell’universo sensibile dei nughedesi, mentre Adriana è già andata via, alla ricerca di nuove forme e storie da modellare.

2016. FRANCESCA SASSU

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